Bambini aggressivi e violenti, che fare?

Bambini che mordono, bambini che danno pugni, che graffiano, che spingono i compagni.
Bambini che rompono gli oggetti, che urlano, che fanno perdere la pazienza ai genitori che non sanno più come comportarsi.
Punire? Rimproverare? Far finta di nulla?
Oggi parliamo di questo spinoso e difficile argomento con la psicologa amica, la dottoressa Francesca Santarelli.

Ecco cosa ci consiglia:

Sembrerà strano parlare di rabbia e aggressività quando pensiamo ai nostri bimbi; qualcuno di voi penserà di aver fatto di tutto per insegnar loro che non è bello arrabbiarsi ed essere aggressivi, altri ancora forse, al contrario troveranno in questo articolo la fotocopia del loro figlio.

Di fronte ad un bambino arrabbiato le reazioni ed emozioni dei genitori possono essere diversi: c’è chi si spaventa, chi lo rimprovera, chi lo incoraggia, chi ne rimane inerme, chi se ne preoccupa.

Tutto questo per introdurvi al concetto che, solitamente la rabbia, se pur emozione normalissima e sana, ancora oggi viene in qualche modo censurata, inibita o vissuta come un qualcosa che non si sa come gestire ne contenere.

Graffiare, mordere o tirare i capelli: perché il bambino è così aggressivo e sembra essere così arrabbiato?

Dietro queste azioni di solito, si nasconde sempre il desiderio di essere ascoltato, visto e considerato. Sono solitamente un modo poco funzionale di attirare l’attenzione da parte dell’adulto.

Winnicott, pediatra e psicoanalista, sosteneva che “crescere è di per sé un atto aggressivo” basta osservare come i bambini si muovono con prontezza verso un bel giocattolo; l’afferrano con grinta e quando qualcuno prova a portarglielo via si ribellano con aggressività.

Nei bambini l’aggressività è un modo per comunicare ed è un sistema emotivo che si evolve in relazione alle tappe evolutive dello sviluppo. Ecco perché per poterla comprendere appieno deve essere valutata in relazione alla sua età.

Nel primo anno di vita l’aggressività del bambino (che si manifesta con pianti, urla, utilizzo di oggetti per colpire persone o piani di appoggio) è una modalità specifica sia di reagire alle frustrazioni sia di dare spazio alla tendenza esplorativa che caratterizza proprio i primi anni di vita.

Intorno ai due-tre anni, invece, quando oramai il cucciolo si percepisce come una sua identità ben distinta da quella della madre, inizia la cosiddetta fase dei “NO”.

Per quanto difficile da vivere nella realtà (e lo so bene!!) anche questo rappresenta un tentativo del nostro piccolo di crescere e di affermarsi come entità autonomo permettendogli di distinguere l’IO dal TU e di far valere dunque la sua volontà.

Non bisogna dimenticare anche il valore esplorativo di alcuni atteggiamenti aggressivi. Ad esempio pugni, schiaffi, lancio di oggetti, crisi di rabbia ecc… sono un tentativo per mettere alla prova e testare le relazioni e per capire l’effetto che questi comportamenti suscitano sulle persone e l’ambiente che lo circondano.

Ci sono poi, una serie di situazioni che il bimbo si trova a vivere nella sua vita che gli causano una profonda sofferenza, frustrazione, senso di impotenza e tutta un serie di emotività negative che non è  in grado di riconoscere e verbalizzare chiaramente. In tutti questi casi, è abbastanza normale che usi l’aggressività per chiedere una forma di aiuto o di attenzione o comunque per esprimere il malessere che ha dentro. La cosa difficile, è che non sempre i genitori si mettono subito nell’ottica di ascolto e di provare a interpretare qui gesti andando oltre l’apparenza. Ma viene abbastanza immediato sgridarlo, giudicarlo o metterlo in punizione.

La vita frenetica che facciamo un po’ tutti e la superficialità in cui sembra sempre di più andare la nostra società, ci fanno dimenticare che i bambini hanno tutto un loro modo di comunicare le loro emozioni e che è un errore fermarsi solo ed esclusivamente alla loro manifestazione finale e più evidente.

Un bambino aggredisce per quegli stessi sentimenti che sente dentro di sé e che sono per inaccettabili. Le persone che lo fanno arrabbiare sono proprio le stesse che lui ama, così come le persone che lo minacciano e che si prendono cura di lui.

Ecco perché la prima cosa che consiglio di fare di fronte all’aggressività di un bambino è la seguente: fermatevi, osservatelo, cercate di analizzare il contesto e la situazione che sta vivendo e provate a mettere il tutto in relazione alla sua rabbia. Provate a interpretare prima di intervenire in qualunque modo, provate a mettervi nei suoi panni e capire i suoi sentimenti.

Aiutatelo a manifestare quello che prova o semplicemente a farlo sfogare con dei giochi simbolici o fisici in cui può buttare fuori quello che ha dentro e che lo turba.

Rimanete comunque fermi e intervenire decisamente in modo autorevole quando il bambino comincia a superare certi limiti e mette in pericolo la sua sicurezza fisica e quella degli altri.

Abbandonate voi per primi l’idea sbagliata della rabbia come un’emozione negativa e giudicante e chiedetevi che rapporto avete voi stessi con questa emozione e come la vivete e gestite.

Confrontatevi anche con altri genitori proprio per riflettere e condividere dubbi e difficoltà e anche per trovare delle nuove strategie e soluzioni. Spesso i genitori non esprimono i loro dubbi e paure in merito all’aggressività dei figli perché temono il giudizio degli altri e di essere accusati di non aver saputo impartire la giusta educazione ai loro figli.

Sono sicura che, ognuno di voi, avrà trovato qualche spunto di riflessione interessante per poter approfondire personalmente la questione.

Per appuntamenti  con la dottoressa Francesca Santarelli, o info, potete visitare il sito Internet del suo studio: www.studiosantarellidecarolis.com 

Pubblicità

Melo e il pescespada

Il caldo afoso di quella mattina d’agosto dava ad intendere che il giorno non avrebbe risparmiato nemmeno chi se ne stava all’ombra, rincantucciato sotto una delle tante barche arenate sulla grande spiaggia di quel piccolo paese che contava poche centinaia di anime: Tonnarella.
Un paesino in cui, anni or sono, oltre alla pesca, veniva praticata la raccolta del gelsomino. Ancora prima che spuntasse l’alba, le donne con i loro canti contadini passavano con grosse ceste adagiate sul capo, colme di quel delizioso fiore il cui profumo entrava dalle finestre delle piccole case, inebriando chi, nel dormiveglia, assaporava l’ultimo sonno della notte.
All’ombra del Santa Lucia, un vecchio peschereccio ancora tutt’altro che in disarmo, Melo ricuciva le reti sfaldate la notte prima da qualche grosso delfino rimastovi intrappolato durante la pesca alle alici. Il caldo sembrava non infastidirlo proprio; il suo corpo asciutto e stagionato, dal nero colore della pelle, pareva appartenesse alla famiglia Mustafà, una piccola tribù di neri da anni trasferitasi nel piccolo paese a lavorare nei vivai dei dintorni.
I giovani lo chiamavano: “Melo il Marocchino”; ma a lui sembrava non importasse proprio di quel nomignolo. Rammendava, con la pazienza che solo i vecchi lupi di mare hanno, quelle reti che di danni ne avevano subiti tanti. Rammendava e raccontava, ai piccoli che si riparavano all’ombra di quella grossa barca, momenti di vita vissuta al largo, nel mare aperto. Essi lo ascoltavano in silenzio, infastiditi solo da qualche moscerino, di quelli che ancora oggi popolano le spiagge.
«Zio Melo, raccontaci di quando eri piccolo e volevi prendere il pescespada con la lenza» fece uno dei più piccoli che lo ascoltavano incantati.
Quella storia era ormai divenuta leggendaria.
Di anni, Melo ne aveva già tanti, anche se nessuno sapeva di preciso quanti. I più sostenevano che già da tempo aveva passato gli ottantacinque.
Melo Aprile. Aprile, si diceva, perché il bisnonno fu trovato in fasce in quella spiaggia nel mese di aprile.
Raccontava, ritornando indietro nel tempo, e gli si leggeva negli occhi infossati ora il dolore, ora la gioia dei momenti vissuti; spesso riemergeva nel viso raggrinzato un sereno sorriso:
«Ero piccolo» cominciò «appena dodici anni, e già aiutavo la famiglia; quel giorno mi trovavo sulla barca, intento a far scendere in acqua il palancaro…».
Qualcuno dei piccoli non capiva.
«È un lunghissimo filo di nylon» spiegava loro. «Un filo con tantissimi braccioli lunghi un metro e distanti due metri e mezzo. Trecento braccioli e in ognuno un amo. Un filo lungo ottocento metri circa. Ad ogni amo andavo innescando un pezzettino di sarda, era quella l’esca di quel giorno; altre volte innescavo delle acciughe o piccoli pezzettini di calamaro.
Quella mattina, mentre remavo e andavo abbassando in acqua il filo, vidi passare sotto la barca un piccolo pescespada. Era bellissimo, mi si accapponava la pelle al pensiero di vedermelo abboccare da un momento all’altro a uno di quegli ami, tanto era piccolo, mi dicevo; non avevo ben chiare ancora le proporzioni di quel pesce che continuava a giocherellare attorno agli ami che lentamente scendevano a fondo.
Finii di mandare giù l’ultimo amo e il pescespada scomparve con esso. Dovevo aspettare almeno un paio d’ore prima di iniziare a tirare il filo sulla barca. Decisi di tornare un po’ a terra, mentre… ecco che rivedo il pesce sotto la barca, mi sembrava di vederlo più grosso stavolta. “Forse era più in superficie?” Mi chiedevo.
Cercavo di capire come poterlo catturare. Avevo sulla barca un grossissimo amo mezzo arrugginito, residuo di qualche vecchia pesca a tonni da parte di mio padre, e una cordicella di nylon di circa dieci metri. Vi legai l’amo a doppio nodo e attaccai la cordicella a poppa; presi una delle sarde rimastami, la innescai per intero a quell’amo e lo buttai a mare. Il pesce sembrò essere disturbato da quei continui saliscendi che facevo con la cordicella, e finì che non lo vidi più; aspettai ancora, pensando di vedermelo riapparire dietro l’amo innescato, ma niente.
Ripresi a remare verso riva, lasciando in acqua l’amo con tutta la sarda e la cordicella legata sempre a poppa. Avevo dato poche palate, quando sentii un grosso strattone e la barca traballare come se avesse urtato in uno scoglio; non ebbi nemmeno il tempo di pensare che lì, in quel posto, c’era solo sabbia, che la barca cominciò a muoversi all’indietro.
Subito capii quello che stava accadendo: “Come poteva” mi domandavo “un piccolo pescespada far muovere quella, anche se pur piccola, barca?”».
Zio Melo smise di rammendar la rete, fissò il vuoto e si zittì; gli si leggeva nel volto la paura di allora.
«Dai, zio Melo!» spronavano i bambini. «E dopo com’è finita? Perché non continuavi a remare verso terra?».
«E come?» intervenivano gli altri rimasti imbambolati.
«Ripresi a remare» continuò zio Melo «ma non riuscivo a guadagnare nemmeno un metro. D’un tratto, la barca cominciò a prendere il largo; i remi, uno mi era caduto in acqua e l’altro dovetti tirarlo in barca. Era come se fossi spinto da un fortissimo vento di scirocco. Cominciai a gridare aiuto, mentre cercavo disperatamente di sciogliere la cordicella che si era aggrovigliata con un piccolo arpione posato a poppa. Nessuno in spiaggia sembrava capire niente di quanto stesse accadendomi.
La barca continuava sempre più la sua corsa verso il mare aperto. Non avevo nemmeno come tagliare quella cordicella che continuavo a battere con la sassola, unico attrezzo di cui potevo disporre; niente, la cordicella era spessa quanto l’indice della mia mano, e, se pur avevo dodici anni, capite bene quanto avrei potuto tirare.
Cominciai a piangere, qualche lacrima mi inumidiva la bocca secca, secca, sicuramente a causa della gran paura perché non sapevo che fare; mentre, al largo, il mare cominciava ad incresparsi sempre più.
Tante volte guardai lassù verso Tindari, implorando la Madonna perché venisse in mio aiuto… Avevo appena tre anni quando mio padre mi aveva condotto al santuario. Eravamo partiti all’alba del giorno 6 del mese di settembre, festa della Madonna, si dovevano percorrere circa 15 km, ed eravamo tutti a piedi scalzi, era così che si andava al santuario, e mia madre, ricordo che si dovette fermare per togliersi dal piede una grossa spina di rovo: quel rovo che, ancora oggi, cresce lungo il viottolo che porta su al monte. A nulla valsero le mie implorazioni.
Il vento di scirocco iniziava a soffiare, volevo buttarmi a mare e tenermi aggrappato al remo, unica speranza rimastami, ma la paura di essere attaccato da quel grosso pesce era più forte. Sentii un rumore di motore, non capivo da che parte arrivava; la barca sembrò che perdesse la sua corsa.
“Sono salvo!” gridai. Il pesce doveva essersi sboccato. Il mare continuava ad incresparsi sempre più, e le raffiche di vento cominciavano a spingermi acqua addosso; ero inzuppato come un pulcino, non riuscivo a prendere alcuna iniziativa. Il rumore di un motopeschereccio era già vicino, tanto che sentii una voce chiamare: “Melo!”.
Era il mio nome! Mai quel nome m’era apparso così bello. Mi girai e vidi mio padre con una ciurma di marinai sul Santa Lucia».
«Questo motopeschereccio?» fecero in coro i ragazzi.
«Sì, proprio questo.
La barca riprese a muoversi, il pesce era ancora lì, e la paura che sembrava avermi abbandonato, mi riprese forte. Gridai loro quanto stesse accadendo e mi dissero di stare fermo, mi assicurarono che a momenti si sarebbe risolto tutto.
In men che non si dica, circondarono la barca nella quale mi trovavo con una larga rete e mi lanciarono un grosso coltello perché tagliassi la cordicella; subito eseguii, ed uscii da quella rete, aiutato dall’unico remo rimastomi. Mentre i pescatori tiravano su la rete, mio padre mi aiutò a salire sul motopeschereccio e mi abbracciò forte forte. Legammo la barca al Santa Lucia ed aiutammo gli altri a tirare la rete.
Fu una meraviglia generale, quando tirammo in barca quel grosso pesce che si dibatteva furiosamente; aveva ancora l’amo attaccato e la cordicella che gli pendeva dalla grandissima bocca. Qualcuno diceva che avrebbe pesato più di un quintale, e, a sentir loro, c’era da crederci.
Rientrammo cantando in coro Vitti ’na crozza.
Solo mio padre non cantava, aveva tra le labbra un gelsomino, ne teneva sempre qualcuno in tasca, glielo dava mia madre quando rientrava dai campi.
Guardò verso Tindari e mi abbracciò commosso».

Melo e il pescespada

La verità è che se uno vuole ce la può fare anche da solo.

Sfatiamo il mito della meritocrazia andata a puttane.Risolleviamo lo spirito di noi giovani, crediamoci ancora.Lo so, è difficile; lo so, i grandi sono espliciti con noi; sono cattivi; sono realisti, ma sono anche bravi a farci perdere le speranze; lo so, vediamo le cose andare veramente, veramente male. Però, a contrario, oggi una cosa la voglio dire io.

 

 

Io, che mi sono laureato e mi sono portato dietro il sogno della ricerca universitaria; io, che mi sono sentito dire sempre, da tutti, che la strada dell’università è chiusa, inaccessibile, dura, difficile, fatta per quelli che sono portati avanti da chi conta, non per quelli “a piede libero”; io, che me ne sono andato alla volta di una città che non conoscevo pur di arricchire le mie conoscenze; io, che mi sono sempre sentito un gradino sotto; io, che non ho un’intelligenza superiore alla media e non ho una conoscenza maggiore di quelli della mia età; io, che sono un normodotato testardo; io, che sono realista e cinico, ma a volte sognatore e ambizioso; io, che ho partecipato in un solo anno a otto concorsi pubblici per accedere alle varie scuole di dottorato di ricerca in Italia; io, che ho studiato sotto al mio ombrellone quest’estate cibandomi di manuali di diritto amministrativo, assecondando la mia passione, accettando il sacrificio; io, che ho vissuto sui treni per tre mesi al fine di poter fare prove scritte e orali di tutti questi concorsi; io, che ho superato le prove scritte inaspettatamente; io, che non sono stato segnalato; io, che ho vinto un dottorato di ricerca.

 

 

C’ho creduto, mi sono impegnato, c’ho messo la buona volontà, mi sono stressato, e ce l’ho fatta.Non lo so se ce la farò nel futuro, ancora, come ce l’ho fatta oggi.Non lo so se sarò fortunato ancora.Non lo so se questa sarà effettivamente la mia strada, oppure mi faranno fuori nell’immediato perché non sono fatto per la ricerca (oppure, perché c’è qualcuno che alla ricerca è più adatto di me); intanto, io ce l’ho fatta.Da solo.E non perché sono bravissimo, intelligentissimo, bellissimo.Non perché sono allievo di, figlio di, nipote di, cugino di, amante di.Non perché ho studiato fino alla nausea, ingurgitando nozioni tanto per e gareggiando con gli altri per essere il meglio.Non perché mi sono prostrato a professori nelle varie università.Semplicemente, perché il destino ha voluto che così fosse. E che il mito fosse sfatato dalle circostanza concrete.L’Italia è malata, è vero. Ma forse c’è ancora qualcosa di sano, in lei, in alcuni momenti della sua esistenza.Cerchiamo di coglierlo, questo qualcosa. Facciamo sì che questo sano appartenga a noi. Teniamolo in vita. Se ci convinciamo del fatto che tutto è malato, non riusciremo mai a curarla, questa Italia. non partiamo scoraggiati: proviamoci. Proviamoci sempre. Non si può mai sapere.Non è il tuo turno, ti diranno.Lì non c’è speranza, continueranno a dire.Ma tu, provaci.Il caso disegna delle storie che non sempre sono prevedibili e vanno come avevamo immaginato (o, peggio, avevano programmato).Tu sfidalo.Non avere timore. Di cosa hai paura? Al massimo, andrà come avevi pronosticato. Se non sarà come credevi, vorrà dire che avrai sbagliato a pensare male. E verrai sorpreso in positivo.Quindi, di cosa hai paura?Di rimanerci secco perché troppo contento quando vedrai di avercela fatta da solo?Non avere paura.Io non ne ho avuta.O meglio, ne ho avuta, ma ho fatto finta di non avercene.Quindi, abbia paura; ma nascondila. Falla da parte.Io non sono migliore degli altri.Io nono sono più bravo degli altri.Io non sono più capace degli altri.Io non sono più coraggioso di te.Io sono come te.Perché io sì e tu no?Perché tu non potresti avere questa fortuna?Provaci.

 

 

Impiegherai il triplo del tempo rispetto a quelli che hanno la strada spianata, magari; ma tu non arrenderti. Provaci. Vai avanti. Datti da fare. Non ti scoraggiare.Fatti male, porta i segni. Soffri pure, ma provaci.Ti fidi di quelli che ti dicono che il fuoco non brucia più, se non provi a toccarlo tu stesso per sentire davvero la sua innocuità?Lo dico anche a me stesso, ancora, per tutte le altre esperienze di vita che dovrò affrontare: provaci.Fallo.Fallo tante volte.Se non va, rifallo.Suda, fatica.ottieni.E, alla fine, gioisci.

 

 

 

Un dottorando
 

http://www.affaritaliani.it/una-denuncia-al-contrario190414.html

Il lavoro è concreto e ci porta la salute

La cosa più importante nella vita non è l’amore giusto, non è essere amati dagli altri e neppure avere un’idea religiosa o un’altra. 
La cosa più importante è il proprio lavoro: se lo facciamo con passione, totalmente presi e persi nei gesti che lo caratterizzano, ci troviamo senza sapere nella casa dell’Immenso, come è successo a te, e siamo pervasi dal Senso.
Allora l’Eterno libera un’energia che ci porta a realizzare ciò che siamo. Vedi, un sogno ti ha portato alla percezione del desiderio di studi erboristi e contemporaneamente a ricordarti il pulire, il muovere le mani con uno straccio, che era ben presente nella tua infanzia. In questo senso mi piace ricordarti il grande saggio ebreo Abraham Chaim di Zlocow che puliva e ripuliva i piatti della cena, senza svolgere lo sguardo altrove. E così raggiunse l’illuminazione più alta.
Per ognuno di noi la sua Impronta Originaria ha scelto il lavoro più adatto, le azioni corrispondenti al suo sviluppo. Non c’è un animale in natura che non faccia così: che ragno sarebbe mai senza la sua ragnatela?
Non siamo nati per fidanzarci, per sposarci o per crescere i figli; forse non siamo nati neanche per pregare, ma semplicemente per realizzare i nostri interessi profondi e i lavori manuali ad essi collegati.
Fai il tuo lavoro, qualsiasi esso sia, non lamentarti e continua a farlo. Allora sei come un fiore che partorisce il suo profumo. 
Se sbagli lavoro magari fiorisci, ma nessuno ti annuserà, perché hai perso l’olfatto e quindi la sensibilità.
Svegliarsi la mattina e chiedersi: Sto leggendo un libro che mi appassiona? Sto facendo il lavoro che mi piace? Sto studiano cose che mi interessano? Se perdi di vista tutto questo entrerai nel regno delle illusioni, che sono il vero nemico dell’eternità che ci abita. 
La strega delle fiabe è il simbolo delle illusioni che ci vampirizzano.
Il lavoro è concreto e ci porta la salute: per questo i grandi saggi consigliavano il lavoro artigianale, quel fare con le mani che i bambini amano così tanto.
A ogni età l’anima fiorisce, se facciamo il nostro lavoro e cioè le azioni del nostro destino. Invece le illusioni sono costruzioni cerebrali, ci fanno desiderare ciò che c’è e che non ci sarà mai e portano all’autodistruzione sia della mente che del corpo. 
I messaggi che ti manda il tuo inconscio sono un regalo grandissimo, perché ti indicano la strada dei tuoi interessi più profondi.
Di più non c’è.

Raffaele Morelli

La gocciolina ed il mare

Era mattino presto, il freddo era immobilizzante. Perché per una gocciolina come me il freddo può anche diventare ghiaccio.
Avevo trascorso la notte tra le braccia di una foglia verde ed ora scorrevo. A quest’ora della giornata, tra il buio della notte e le prime luci dell’alba, mi viene sempre difficile di essere ottimista, di continuare a sperare.
Sperare di divenire il mare…
E mentre scorrevo, speravo. Scorrevo, speravo, scorrevo, speravo.
Un giorno mi ero fermato nel fango, e con lui ho distrutto tutto ciò che incontravo lungo la strada. Un altro ero finito in uno stagno, bello sì, ma sempre fermo.
Poi il caldo forte della stagione arida mi porto al cielo. Era bellissimo, giocavo con le nuvole, ballavo ai tramonti coi ciuffi di vento e dormivo la notte sull’ovatta soffice da manto di pecora. Il cielo era la mia casa, azzurro e calmo.
Troppo bello, ero felice!
Poi arrivarono i venti freddi che si scontrarono con la nostra oasi calda, avevo paura, i fulmini tagliavano il prato su cui giocavo, tutto era buio, freddo, tutto tremava. D’improvviso sparì tutto il bianco soffice su cui avevo trascorso l’ultimo periodo ed caddi.
Caddi…
Finì in una palude abitata da zanzare e grilli, che rumore assordante! Ma ben presto mi ci abituai e trascorrevo le giornate saltellando tra un ramo di bambù ed un chicco di riso. La notte il suono dei grilli prese il posto del rumore e anche quella vita mi iniziava a piacere, le stelle in alto mi parlavano dei miei sogni che avevo messo oramai da parte. 
Loro ci credevano, io no…
Ed un mattino con un chicco di riso me ne andai in un secchio. Lui era terrorizzato, anche io avevo un po’ paura. Lui mi parlava di bocche di umani in cui sarebbe entrato e mai più uscito. Cercavo di rassicurarlo, di spiegargli la mia vita, dei miei giri, del ciclo della mia vita. Ma lui non capiva, aveva paura. Venimmo caricati su di un furgone e portati in città.
I colori della natura non c’erano più, c’erano le tonalità della città. Grigio, antracite, fumo, bianco sporco, marrone chiaro, arancione che una volta doveva essere un bel rosso, verde petrolio.
Finimmo in una fabbrica, dove ci separarono. Ricordo ancora, un caldo tremendo. Il chicco non parlava più ed io d’un tratto lo lasciai, quasi come uno spirito che lascia il suo corpo. E volavo, volavo in alto. 
Ero vapore…
Ma durò poco, mi fermai presto in una nuvola grigia e divenni pioggia. Per giorni e gironi piovve, ed anche io mi dovetti riparare, una radice divenne la mia casa. Tra terreno e rami scorreva la mia nuova vita. Ora ero terra, ora fango, ora linfa.

Non ero nato per diventare mare…

Volevo esserlo ma sognare è da sciocchi, sperare da deboli. In fondo ero acqua, una semplice gocciolina. Non ero altro. La mia vita era questa.
Il vento mi spazzava via, ed era giusto così. Che ci fossi o meno non cambiava nulla. Cambiavo spesso luogo ma sempre tra radici, fango ed alberi restavo.
Le nuvole grigie sparirono ed ogni tanto riuscivo anche a vedere un fascio luminoso che giungeva dal cielo. Ero triste, anche se mi piaceva guardare il sole, mi ricordava i miei momenti giocosi tra le nuvole.
Ed alla sera il buio quasi mi diede sollievo perché mi tolse i sogni che non avevo. 

Ero tra le braccia della foglia…
Scesi e finì su di un sasso che mi lasciò scivolare verso i suoi amici. Scendevo…
La mia vita, una salita ed una discesa, tutto ciò per mille volte, per l’eternità.
Man mano che scorrevo sulle pietre ero torrente, e le pietre mi sussuravano quasi come carezze, io per loro e loro per me. L’uno per l’altro, l’altro per l’uno. Mi fecero sentire il rumore del mare, perché loro riuscivano a comunicarselo. Io non lo conoscevo, il mio sogno ma volevo esserlo. 
E le carezze divennero spinte, sproni…
I sussurri erano incitamenti. ” Vai, non mollare”! Ogni volta che sbattevo contro una roccia, tornavo indietro e la pietra mi diceva “VVVVaiiiiiiiii”, ” CCCCCiii seeeeeiii”.
Quanti sbattimenti, quanto dolore. Piangevo perché era troppo dura. Una cascata mi tolse il respiro, cadevo di nuovo. Cadevo, cadevo, cadevo. La mia vita era così, macché speranza, illusioni, sogni. Ma basta! In fondo quando ero nella palude, nello stagno, nel fango, sotto terra non era male. Ero come tutti gli altri. Ma cosa volevo, il mare, ma vaaaaaa, povero illuso. Ora cadevo, ero dolorante, soffrivo. Per cosa ? Per la solita caduta, come tutte le altre, perché la mia vita era cadere, scendere.
Plaffffffffffffffff, il tonfo della caduta spezzo i miei pensieri, il mio sconforto, quasi ero felice di aver interrotto il solito dolore per ritornare nel terreno viscido.
Poi, il blu…
Non capivo nulla, ero io. Ero iooooooooooooooooooooooooooo. Ero vita, il mareeeeeeeeeeeee.
Ero feliceeeeeeee, piangevo. Ce l’avevo fatta.
Mi abbraccia al sale e divenni onda.
Onda, forza, energia ma anche carezza e suono.
Perché ciò che fa male non sempre è fine ma inizio.

[N.Iac]

Un insegnamento allegro e giocoso

Un metodo di insegnamento dolce farà sembrare lo studio gioco, non fatica. In questo infatti bisogna ingannare con certe lusinghe i bambini così piccoli che non possono capire quanto frutto, quanto prestigio, quanto piacere apporterà un giorno lo studio.
Questo risultato si potrà ottenere in parte con la dolcezza e affabilità del maestro, in parte con l’ingegnosità e solerzia nell’inventare vari sistemi per far divertire il bambino con l’alfabeto e distrarlo dalla percezione della fatica. 
Non c’è nulla di più controproducente, infatti, di quando il comportamento del precettore fa sì che i bambini comincino ad odiare lo studio prima di aver potuto capire perché amarlo. 
Il primo stadio dell’apprendimento è l’amore per il maestro. Con il tempo il bambino che ha cominciato ad amare le lettere in funzione del maestro finirà per amare il maestro in funzione delle lettere.
Infatti, come la maggior parte dei doni sono graditissimi anche solo perché ci vengono da persone molto care, la cultura viene raccomandata dall’affetto per il maestro a coloro che non la possono ancora apprezzare razionalmente. 

Erasmo da Rotterdam

Lettera di un figlio a tutti i genitori del mondo

Non datemi tutto quello che vi chiedo.

A volte chiedo solo per riscontrare quanto posso prendere.

Non sgridatemi: vi rispetto meno quando lo fate ed insegnate a gridare anche a me.
Non vorrei imparare a farlo.

Mantenete le promesse, belle o brutte. Se promettete 
un premio, datemelo, e comportatevi così anche con le punizioni.

Non mi paragonate mai a nessuno, specialmente a mio fratello o sorella;
se mi fate apparire migliore o peggiore di altri sarò io a soffrire.

Non cambiate parere così spesso su ciò che devo fare;
siate determinati a mantenere la vostra decisione.

Permettetemi di crescere fidandovi delle mie capacità.
Se voi fate tutto al posto mio io non potrò imparare mai.

Non dite bugie in mia presenza e non mi piace che voi mi chiediate di dirle al vostro posto, neanche per darvi una mano. 
Questo mi fa sentire male e perdere la fiducia in tutto ciò che mi dite.

Quando sbagliate ammettetelo.
Questo aumenterà la mia stima per voi, mi insegnerete così ad ammettere i miei sbagli.

Trattatemi con la stessa affabilità e spontaneità che avete verso i vostri amici; 
essere parenti non vuol dire essere amici.

Non mi chiedete di fare una cosa che invece voi non fate, anche se non lo dite;
non farò mai ciò che voi dite, ma non fate.

Quando voglio condividere una mia preoccupazione con voi, non ditemi:”Non abbiamo tempo per stupidaggini” oppure: “Cose da ragazzi”;
Cercate di capirmi e di aiutarmi.

Vogliatemi bene e ditemelo. 
A me piace sentirmelo dire, anche se voi credete che non sia necessario dirmelo.

Abbracciatemi, ho bisogno di sentire il vostro amore, la vostra compagnia e la vostra amicizia in ogni momento.

Il paese dei bambini che sorridono

Per i miei bambini una giornata nera è quella in cui va via il segnale TV, o non c’è latte a sufficienza per i loro cereali. Io voglio che conoscano una vita diversa, e abbiano una diversa comprensione di cos’è una difficoltà. Il miglior modo di riuscirci è fare quel che rimpiango di non aver fatto per Jantsen: insegnare loro, attraverso il mio modo di vivere, che il mondo non è così grande come crediamo e che è mia responsabilità, e un giorno sarà anche la loro, prendersi cura delle persone che hanno bisogno del nostro aiuto, anche se quelle persone non ci assomigliano, o vivono in un luogo che ci appare remoto e sconosciuto. Vedo che molti miei amici tentano di proteggere i figli dal dolore e dalla delusione, come facevo io quando Jantsen e Christa erano piccoli, ma ora non posso più farlo. Non voglio che siano paralizzati dalla paura. Voglio che prendano dei rischi e viavno una vita avventurosa. Voglio che vivano il loro sogno, e il modo migliore per insegnarglielo è fargli vedere come io vivo il mio. E se questo mi ha impedito di metterli a letto tutte le sere, e mi ha fatto perdere una festa di Hallowen o due, be’, sono sopravvissuti. Anzi, ogni anno Tatum mi dice che l’unica cosa che vuole per il suo compleanno è un passaporto valido per poter andare a trovare i bambini che considera suoi fratelli e sorelle. 

[ Pam Cope – Il paese dei bambini che sorridono ]

Il pesco di Leonardo da Vinci

Un pesco, che viveva accanto ad un noce, guardava con invidia i rami del suo compagno carichi di noci.

“Perchè lui deve avere tanti frutti – pensava – mentre io ne ho così pochi? Non è giusto. Voglio provare a fare come lui”.

“Non ci provare. – disse un giovane susino che ne aveva letto il pensiero – Non vedi che rami grossi ha il noce? Non vedi che tronco robusto? Ciascuno deve dare secondo le proprie forze. Pensa a fare delle buone pesche; è la qualità che importa, non la quantità”.

 

Ma il pesco, accecato dall’invidia, non volle ascoltare.

 

Chiese alle sue radici di succhiare più sostanza dalla terra, alle sue fibre di far scorrere più linfa, ai suoi rami di fiorire di più, ai suoi fiori di trasformarsi in frutti, finché, giunta la stagione, si trovò carico di pesche da capo a piedi.

Ma le pesche, maturando, aumentavano di peso e i rami non potevano sostenerlo; e nemmeno il tronco poteva reggere tutti quei rami pieni di pesche. Con un gemito il pesco si piegò; poi, con un grande schianto, il tronco si spezzò e tutte le pesche marcirono ai piedi del noce.

 

 

Leonardo Da Vinci

Il ruscello della vita

Scorre il ruscello, scorre. 
Scorrono le mie emozioni, scorre il passar del cielo, il batter d’ali delle farfalle. Il sole m’irradia i pensieri disegnando il gioco della luce tra rami forti e petali magici. Un paradiso m’avvolge e mi trasporta.
Cammino, proseguo, corro. Il vento m’accarezza e mi dona serenità. 
Sul manto verde s’adagiano i miei passi…
Sospeso nella pace m’inoltro nell’anima. Là, sulla roccia, in mezzo all’oasi mi siedo…
Le foglia mi cantano l’ode all’amore. E’ la bellezza pura che mi lascia estasiato.
Un mondo fiabesco, di mille storie mi prende e mi porta con sé.
E mentre ammiro la sua magia, dalle rughe del mondo verde ne vedo i dolori. 
Tanta forza, potenza, beatitudine anch’essa figlia della sofferenza.
Una natura violentata, calpestata, distrutta nei secoli, pur sempre rimasta capace di andare avanti e di donare il suo amore stupendo.
Si racconta, ti parla, t’insegna e ti aspetta.
Ferma nella sua imponenza, veloce nella sua magnificenza.
La vita, cammina. Se vuoi, cammini con lei e ne prendi il tuo essere.
Una goccia ti riga il viso, sino a scorrere nel ruscello dell’esistenza.
E dona l’acqua a chi non ce l’ha.